Le ultime lettere di Jacopo Mortis – 2

Questo racconto partecipa all’iniziativa “Risorgimento di Tenebra” promossa dal gruppo Moon Base, la pagina facebook degli amanti della fantascienza e del fantastico.

Ecco l’elenco dei paragrafi usciti finora.

2

Si era dunque agli inizi della primavera del 18** quando fui ammesso come Apprendista Riparatore a quell’Accademia di cui scrissi e la cui esatta locazione, composizione di membri, dotazione di proprietà e perfino disposizione di intenti io non posso rivelare, tale il voto di segretezza che ancora mi vincola.

Basti sapere a riguardo che per i tre mesi successivi io frequentai instancabilmente tale consesso di pensatori, eruditi e scienziati e con essi mi intrattenni in conversazioni, ricerche ed esperienze del tutto diverse per genere e categoria da qualsiasi altra in cui avessi indugiato in precedenza.

Mi dedicai all’Accademia con ogni facoltà intellettuale e ogni energia fisica di cui la mia giovane età mi aveva dotato, smettendo quasi di far altro che non fosse studiar antichi tomi, comparar lingue morte, replicar schemi e simboli arcani, far pratica di alambicchi, armi da fuoco e celle galvaniche.

Ma ecco fu alla metà di giugno, al termine di un incontro in cui mi dilungai fin oltre l’alba, che il Principe Moncada (mi è concesso nominarne il gentilizio) mi invitò ad una gita in battello da tenersi all’indomani e mi consigliò di tornare a casa e riposare per il resto della giornata. Si sarebbe trattato di una battuta di pesca faticosa e riservata, così mi venne detto, e per tanto sarebbe stato il caso di disdire gli impegni presi in precedenza ed evitare di parlarne a chicchessia.

All’alba del giorno appresso raggiunsi l’approdo convenuto e vi trovai il Principe, il mio amico D. e altri tre membri stimati dell’Accademia: Santino, proprietario del battello, il grosso e bonario Candeloro e un Maestro il cui nome dirò Ignazio. Caricammo a bordo alcune casse e involti e ci imbarcammo quindi su una feluca a due alberi, lunga poco più di dieci metri.

Prendemmo il mare e uscimmo dalla falce del porto, dirigendo a nord e tenendoci distanti dagli altri navigli e luntri che solcavano lo Stretto. Fatte forse dodici miglia e traversato quel braccio di mare impetuoso, ci dirigemmo presso un alto scoglio che a piombo cadeva dirimpetto ai nostri lidi.

Quantunque non vi fosse quasi vento, pure a ben due miglia dalla rupe cominciai ad udire un cupo fremere e tuonare e, fattici più d’appresso, non mancai di scoprirne la vera cagione. Lo scoglio si apriva alla base in vari anfratti, bassi sull’acqua, e in mezzo a questi vi era poi un’ampia grotta simile ad una bocca oscura, con un’apertura spaziosissima che pareva sprofondare in penetrali ancor più neri. Quel rumore che da gran distanza se ne udiva altro non era che il suono delle acque che in quel punto, sempre agitate, creavano molteplici fragori, con empito frangendosi attorno, riversandosi, confondendosi e levando alti spruzzi e bolle schiumose. Eppure, quando fummo accosti, un altro suono mi parve di udire dal fondo di quelle fauci nere: come un confuso latrar di cani o lo stridore di chissà quali belve.

Cos’è questo luogo?” chiesi ai miei compagni d’avventura, che sembravan grandemente adusi a manovrar d’innanzi a quegli scogli, e Ignazio a me così rispose in versi:

Nel mezzo, volta all’occidente e all’orco,
s’apre oscura caverna, a cui davanti
dovrai ratto passar. Giovane arciero
che dalla nave disfrenasse il dardo,
non toccherebbe l’incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
di mandar non ristà. La costei voce
altro non par che un guaiolar perenne
di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,
non mirerebbe in lei senza ribrezzo.”

Riconobbi un passo del libro dodicesimo dell’Odissea. “Sicché questo è l’antro di Scilla” dissi, “mi avete dunque qui condotto per affrontar quel mostro?”

Quella che da parte mia voleva essere una celia leggera tosto mi morì in animo, quando mi avvidi che non vi era lume d’allegria negli sguardi che i compagni si lanciavano d’intorno.

Gli abitanti di queste contrade conoscevano quella creatura col nome di Dragara” disse asciutto il Principe, estraendo le sacche e le casse in legno che avevamo caricato a bordo alla partenza. “Ma essa è morta ormai da tempo.”

Aprì quegli imballi e ne rivelò il contenuto. “Questo è per voi, signor Mortis: un mio dono personale” disse, porgendomi un coltellaccio da cavallo con il manico d’avorio. Vi eran altre lame, punte e ferri ed essi vennero distribuiti in silenzio tra i presenti, come se ciascuno sapesse già quale arma gli spettasse.

In una scatola foderata vi eran poi delle pistole, con il calcio in noce e decorazioni d’argento, diverse in foggia da quelle con cui mi ero esercitato in altre occasioni. Il Principe me ne porse una. “Prendete anche questa. È una pistola a vento di moderna realizzazione, che può sparare sette colpi, se vi ricorderete di premer ogni volta questo bottone. Ve la affido assieme a due cilindri d’aria di riserva e due tubi di proiettili. Evitate se possibile di farla urtare contro la roccia o usarla in corpo a corpo, ché ognuno di questi pezzi è unico e fatto realizzare appositamente da un mastro orologiaio di Palermo. I proiettili non son d’argento ma esplosivi, perché i Glauchi son creature di bassa pertinenza preternaturale, niente di più che vili e abietti obbrobri.”

Mi porsero poi delle vesti incerate, complete di guanti, stivali ed un cappuccio, e una benda per coprirmi la bocca e il naso.

Per la stessa cagione” aggiunse Ignazio, mentre mi rivestivo di quegli indumenti, “non utilizzeremo amuleti, esorcismi o preghiere, ma piuttosto dispositivi incendiari a base di clorato di potassio. Tuttavia questi artifici necessitano di specifico addestramento e stavolta non le verranno forniti.”

Mi volsi confuso a tutti loro e chiesi: “Che genere di bestie son dunque questi Glauchi, che siam venuti a pescare?”

Scilla è morta, come vi è stato detto” mi rispose Ignazio. “Ma essa ancora genera figli immondi in questi spechi. È nostro ufficio provveder che essi siano distrutti. Non appena sarete pronto vi condurremo nell’Antro della Dragara e gli darem battaglia.”

Continua…
Mauro Longo
Mauro Longo
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8 commenti

  1. “far altro che non fosse studiar antichi tomi, comparar lingue morte, replicar schemi e simboli arcani, far pratica di alambicchi, armi da fuoco e celle galvaniche.”

    Dove devo firmare?!

    Lo scorso capitolo il sarcofago e i geroglifici, oggi i mostri marini… Tu saresti capace di vendermi ghiaccioli al Polo Nord, ragazzo! 🙂

    Vai avanti!

  2. ahahaha… ti dico la verità: ci metto il triplo del tempo a scrivere questa storia perchè ho visto come scrivi TU e cerco di far di tutto per non sfigurare… “Competizione” al rialzo che non può che far del bene alla qualità generale della cosa…

  3. Il problema è che io non sono solo io. 🙂 Quando Risorgimento di Tenebra era solo un cazzeggio senza scopo su Moon Base io avevo impersonato un personaggio contemporaneamente a un altro membro di Moon Base, quindi credo che il mio sarà in realtà un nostro: scriveremo un racconto a quattro mani, ma la cosa è ancora ben da progettare e vedere come incastrare gli impegni. 🙂

  4. Bello!! Bello bello bello! Torno a dirti che le Lettere le leggo molto volentieri, così come la Breccia di Alessandro.
    Io ho deciso di adottare uno stile diverso, e faccio il mio, mentre resto in adorazione e paziente attesa dei successivi capitoli! 😀

  5. @gianluca: allora pungola quell’altro e datevi da fare!!

    @massimo: sì, le pistole a vento (e anche i fucili) sono un bell’esperimento clockpunk della prima metà dell’800. I glauchi spero saranno una vera schifezza…

    @gherardo: eh bé, meno male che ognuno di noi ha adottato uno stile diverso, sennò sai che noia! Tu ci hai messo soldati francesi mollicci: che orrore! (perché sono francesi ovviamente)

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