Le ultime lettere di Jacopo Mortis – 4

Questo racconto partecipa all’iniziativa “Risorgimento di Tenebra” promossa dal gruppo Moon Base, la pagina facebook degli amanti della fantascienza e del fantastico.

Ecco l’elenco dei paragrafi usciti finora.

4

Cercai di recuperar il controllo e il mio caro amico D. mi offrì degli aceti da inalare. Candeloro, intanto, aveva sollevato con le robuste braccia un gran sasso e lo precipitava su quell’obbrobrio che avevo colpito con la pistola e con il coltello, schiacciandolo e impedendogli di andarsene d’intorno.

Lo recupereremo uscendo” disse il Principe “e finiremo l’opera.” Si rivolse poi a me e disse: “Vi siete ripreso, signor Mortis? Vi s’attende per proseguire l’impresa!”

Mi sforzai d’apparire calmo e compassato e porsi ai compagni le mie scuse per non avere retto a quella prima prova. Poi, per non apparire ancora scosso e pauroso, ché questa cosa più di qualsiasi altra mi avrebbe umiliato, mi posi a fianco del Principe, a capo con lui della nostra piccola comitiva d’avventurieri.

 

Proseguimmo facendoci strada tra pozze di acqua nera e anfratti ritorti. Durante quella discesa all’Averno incontrammo alcuni altri di quei Glauchi e invero constatai che non parevano esservene due che fossero tra loro uguali. Su una stretta cengia ne scorgemmo uno simile al cadavere di un grosso pesce, ma dotato di minuscole braccia e gambe con le quali arrancare. Di poi ci attraversò il cammino una sorta di anguilla lunga un metro, che pareva avere un’altra testa dove avrebbe dovuto trovarsi la coda e saper strisciare indifferentemente nelle due direzioni. Per un erto passaggio in discesa facemmo la conoscenza con una sorta di globo bulboso a cui erano attaccate diverse teste come di calamaro ed esse, incapaci di muoversi, aprivano e chiudevano gli occhi chiari alla luce delle nostre lanterne e si vomitavano addosso il nero inchiostro delle sacche interne.

A tutti questi orrori rivolgemmo le nostre armi e io scaricai il primo tubo di proiettili e il primo cilindro a vento della pistola. Le nostre lame e ferri si lordarono ben presto dei loro succhi interni, e le orribili frattaglie cercavamo di spargerle e schiacciarle con ogni attrezzo.

Ma ecco che giungemmo alla fine del passaggio e il disgusto e l’orrore provati fino ad allora mi apparvero grandemente ridimensionati. Innanzi a noi si apriva un vasto antro naturale, i cui contorni non potevo definire. Schermammo le nostre lanterne e ne dirigemmo la luce in avanti, illuminando quell’anfiteatro di roccia concava e irregolare.

Sul fondo di esso erano distesi i resti di una creatura colossale, uno scheletro immane di cui si distinguevano appena la forma e le spaventose dimensioni. Da lungi essa mi apparve come uno di quei grandi animali fossili che i naturalisti e i fisiocritici vanno trovando in Tartaria o Siam e le cui ossa ormai hanno raggiunto le collezioni naturalistiche d’Europa.

Quale immonda costituzione adombravano quelle ossa bianche e informi, affossate nella caverna? Quante braccia vi erano, che si protendevano da quel corpo? Ed erano esse davvero braccia o piuttosto colli oppure tentacoli ossei o altri arti sconosciuti alla nostra esperienza? E quante costole vi erano in quell’ecatonchiro, quante vertebre, ché quelle ossa che io vedevo sarebbero bastate a tre bemotti e la loro configurazione pareva incomprensibile?

 

Ma la orripilata stupefazione per quel prodigio, mostruoso sì, ma inoffensivo, venne di colpo resa spaventosa dal movimento che vi fu tra quelle ossa. Di tra quei resti sparsi e concrezionati alla roccia stessa scapparon via alla luce nostra decine, forse centinaia, degli abomini glabri e informi che affollavano quei recessi. Da quella loro sede, forse di presso alla propria ancestrale madre, essi presero a correr sciamando verso di noi, viscidi e goffi.

Troppo li abbiam lasciati a moltiplicarsi, questa volta” mormorò Ignazio impaurito, indietreggiando.

Sotto il comando del principe Moncada, sparammo a quelli che giungevano per primi, alcuni arrestandoli, altri semplicemente ferendoli. Sebbene fossimo in svantaggio di numero e di territorio, la natura belluina e insensata dei nostri avversari veniva per fortuna a nostro favore. Non solo quei Glauchi immondi si accapigliavano fra loro per venirci contro, intralciandosi l’un l’altro, ma al minimo sentore del sangue dei compagni, essi smettevano di affrettarsi su di noi e si voltavano ad assaltare i propri simili. L’odore nauseabondo dei loro stessi umori li esaltava e portava a frenesia e tutti quelli che colpimmo con la prima salva di colpi vennero abbattuti e divorati dagli altri che sopravanzavano.

Seppure preso dal più forte degli spaventi, col cuore che martellava in petto e un freddo sudore ad imperlarmi la fronte, rimasi disciplinato alla mia posizione. Ad un ordine del Principe, Ignazio si avvicinò e insieme i due Maestri si fecero innanzi contro i più avanzati di quei mostri, gettando loro addosso quelle polveri e quei liquidi incendiari che avevano con sé. Un fumo acre e denso si levò allora tra noi e quei mostri, più simile ai velenosi vapori di una reazione di laboratorio piuttosto che al prodotto di comuni fiamme di fornace.

 

Non appena quella combustione chimica si fu sprigionata e l’aria prendeva a farsi irrespirabile, corremmo alla ritirata. Candeloro rammentava la via perfettamente anche in quel buio d’ebano e ci condusse nuovamente alle scale da cui eravam discesi, mentre dietro di noi i nostri persecutori si facevan sotto. Superammo i resti dei mostri già uccisi e prendemmo a risalire i gradini scavati nella roccia.

Credevo di essere ormai fuori da quell’angoscioso budello e che il sole me ne avrebbe presto cancellato il ricordo, quando tutta la soddisfazione di quell’impresa divenne d’un tratto vana.

Era D. quasi uscito fuori dall’avello, lui che per ultimo chiudeva la nostra fila, quando venne bloccato da qualcosa che non riuscimmo a scorgere. Un’espressione di orrore ne mutò i lineamenti in una maschera esterrefatta e un grido strozzato gli serrò la gola. Mi volsi a lui, io che ero il più vicino e lo precedevo appena di pochi passi, e allungai le mani per raggiungerlo.

Non feci in tempo. Qualcosa che doveva essere forte e tenace come un titano lo strattonò indietro e lo strappò via a noi suoi compagni, trascinandolo in basso e facendolo svanire per sempre nella tenebra.

Continua…
Mauro Longo
Mauro Longo
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