Le ultime lettere di Jacopo Mortis – 10

Questo racconto partecipa all’iniziativa “Risorgimento di Tenebra” promossa dal gruppo Moon Base, la pagina facebook degli amanti della fantascienza e del fantastico.

Ecco l’elenco dei paragrafi usciti finora.

10

Non abbastanza meraviglie il nostro viaggio sotterraneo ci aveva fino ad allora riservato, ché nulla era l’aver trovato a custodia di quegli spechi dapprima bruti cannibali simili a porci e poi, in quel giardino segreto in fondo al vulcano, belve inumane e mostruose, seppur capaci di simularsi donne. Ora il nostro sentiero ci avrebbe condotto a prodigi ben più straordinari, fino a regioni di là del reale, in quel girone di abissi tartari che soggiace alla quieta superfice del mondo e che nessuno di voi può mai conoscere, se non in quei sogni deliranti di cui invero mai vorrebbe serbare memoria.

Ricordo dunque, seppure con pochi dettagli, che piangemmo i nostri amici morti e che li onorammo come potevamo, ripuledoli con tutte le accortezze e disponendoli all’interno della costruzione bianca che sorgeva in fondo al giardino. Sembrava essa, come già ebbi modo di dire, una sorta di cappella dalla base quadrata e dalla sommità edificata in foggia di cupola, come una chiesa di antica origine levantina o un santuario degli arabi andalusi.

Nonostante quel luogo misterioso giacesse in mezzo ai giardini nefasti delle Dame, i nostri talismani ci mostrarono che esso emanava un’aura sacrale e decidemmo pertanto di riservare ai nostri compagni caduti il miglior destino ci fosse possibile concedere loro, adagiandoli compostamente sul lustro pavimento decorato di quel luogo. “Nulla toccate tuttavia che non sia necessario,” ci ammonì quel maestro che chiamai Ignazio in questa cronaca, “nè osiate assaggiare i frutti del giardino”.

Marmi neri, rossi e bianchi rivestivano quel sacrario e ci trovammo così a muovere i nostri passi su lastre listellate di nodi gordiani, meandri e stelle a sette punte. Anche le pareti erano compiutamente decorate, con motivi che avevo imparato a conoscere all’Accademia: varianti di glifi persiani, emblemi sorastriani e motteggi gnostici, simboli mercuriali e alchemici, soli, lune e calici intrecciati. Tutto in quel luogo appariva consacrato e sapientemente elaborato, cosa che ancor più contrastava con l’aspetto diserto, abbandonato e lugubre dell’intera caverna.

Rammento di come mi guardassi attorno stupefatto, avanzando in mezzo a tali meraviglie, e di come alzassi gli occhi a cornici aggettanti, rilievi grotteschi e foglie d’oro, con l’ovvio basimento di chi contemplava un tale antico splendore celato in fondo a regioni di cotanta selvaggia barbarie.

In alto sulla parete di fondo vi era una gran croce greca di marmo rosso, su cui un’iscrizione in latino recitava parole che in questa sede non posso riferire. Sotto di essa, su un catafalco di pietra nera, era adagiato il corpo di un uomo dalla testa coronata che pareva dormire più che giacere nella morte, la pelle fredda e bianca come il marmo ma addosso nessuno dei segni della corruzione delle carni.

Com’è possibile che qui si celino tali mostri e creature e tutti questi prodigi?” chiesi allora al nostro Gran Maestro, il Principe Moncada, dando parole ai pensieri dei miei compagni.

Sul margine sconosciuto delle mappe” egli mi rispose, mentre tutti ci radunavamo attorno a lui, “gli antichi scrivevano Hic sunt dracones. Ma adesso che il globo terracqueo è stato tutto cartografato, fino ai paesi degli Ottentotti e degli Algonchini, fuori dalle mappe sono rimasti solo il centro della terra e le vacue vastità dei cieli. È qui che ancora avvengono prodigi terribili, signor Mortis.”

Poi, rivolto a noi tutti, proseguì: “Fratelli Riparatori, il nostro numero superava la quarantina all’inizio di questo viaggio, ma ora quivi giungiamo in così pochi che il petto mi si contrae dallo sconforto. Il numero è fondamentale nell’impresa che ci attende e si è deciso di proseguire il viaggio tutti assieme, sebbene alcuni di voi siano stati ingiuriati ed infettati dai morsi delle mostruose creature che poc’anzi ci hanno assaltato. Il compasso eterico ci segnala una via da percorrere oltre la grande croce qui di fronte. Orbene, benché addolorati e intimoriti, apriremo il passaggio che ci attende e lo percorreremo come un sol uomo, financo giù al centro della terra.”

Fui io allora a prender la parola, preoccupato per la salute di quelli che mi erano cari. “Perché spingere costoro ancora oltre,” chiesi dunque, “se essi sono tanto claudicanti e sanguinanti? Non ci sapranno di certo essere d’ausilio in un venturo combattimento, né potranno all’occorrenza scalar pareti o saltar burroni, finendo loro malgrado per costituire un peso al nostro incedere.”

Per la prima volta allora vidi lo sguardo del Principe lampeggiare irato verso di me ed egli così mi rispose: “Non crediate, Mortis, che io ignori il dolore che coglie ad ogni passo i feriti qui presenti, eppure siamo tutti votati all’estremo sacrificio, io per primo.” Così dicendo, scoperse una gran piaga che aveva ricevuto sul ventre e aveva tenuto finora segreta, di fronte alla quale tutti ci ritraemmo. “In tredici siamo rimasti” continuò “e ciascun di noi è indispensabile per completare l’Impresa, su cui abbiam proferito i voti più sacri, rammentate? Non temiate, dunque, ci sapremo ancora far valere fino all’ultimo istante!” Vidi allora Ignazio annuire e tutti gli altri chinare il capo, e infine anche io acconsentii e smisi di questionare, seppure un triste presentimento si facesse strada con gelide dita verso il mio cuore.

 

Tutti dunque tacevamo e attendevamo. Ignazio si aprì la veste, mostrando la sacra cotta che indossava sotto di essa e le due gemme incastonate negli alloggiamenti dorati. “Da questo punto in avanti le arti gnostiche ed ermetiche non hanno più potestà” disse, estraendo un libercolo manoscritto e impugnandolo innanzi a sé come una chiave. “Potremo confidare solamente nella magia di Salomone e nella sapienza di Enoch.”

Davanti ai nostri occhi, Ignazio compì dunque il rituale necessario e la croce si aperse, rivelando un varco oscuro spalancato verso il fondo del tartaro e, oltre di esso, una scala diritta come una spada, incassata nella roccia cupa come a puntare verso il cuore stesso del mondo.

Ed ecco che, in silenziosa preghiera e con i pensieri gravidi di timori, discendemmo per ore interminabili negli abissi, finché le gambe stesse non ci cedettero e le lampade quasi non persero ogni luce.

Oh, spettacolo immenso ed ineffabile!

Chi avrebbe mai saputo immaginare che nelle viscere della terra vi fossero tanti e tali monti intentati e caverne così profonde, erte scoscese e ripide balze, cupi burroni e pianure sterminate, crepacci orrendi e dirupi inaccessibili e poi ancora arene deserte, convalli secrete, campi di lapilli, spaventevoli voragini, crateri spenti, creste dentate e spalti e guglie e baratri e tanta, immensa, infinita solitudine? E che luogo selvaggio era quello, così profondamente cupo e tenebroso che le nostre lanterne a malapena potevano suggerirne le sconfinate estensioni? E chi aveva mai potuto intagliare quei gradini fino ai silenziosi e interminabili abissi del mondo, con rampe che procedevano senza fine e salti che a volte parevano solcare baratri d’inferno?

Di tanto in tanto, chinando il capo verso quegli abissi, scorgevo fievolmente come una luminescenza lontana, che sembrava provenire dai profili delle cose ed era tenue e stregata come i fuochi di Sant’Elmo, e al chiarore di quei misteriosi bagliori ammiravo terrificato cadute continue di cornici, gironi e passamenti, disposti l’uno nell’altro in una prospettiva prodigiosa. A volte ancora, guardando meglio, presentivo turbini di gradini, abissi di spirali, innumerevoli circonvoluzioni e configurazioni come di solidi impossibili e mi appariva come se fossimo nel cavo di un edificio di cui vedevamo la superficie interna in negativo: una architettura ciclopica e inumana fatta di cubi percepiti dal di dentro, guglie invertite e cupole a più curvature. E ancora torri, palazzi e piramidi che avrebbero benissimo potuto costituir l’ancestrale stampo di quelle che sorgevano un tempo nella perduta Babilonia.

Man mano che procedevamo, qualcosa della desolazione e dell’abbandono di quel luogo sembrò crescere dentro di noi e io mi sentii terribilmente scosso e turbato, come fossi preda di un sogno spaventoso. Strane cose sembravano celarsi in quel luogo infero e l’aria stessa pareva compenetrata di malvagità sovrannaturale.

Le nostre esili luci rischiaravano a malapena la stretta scala e nessuna parola o sospiro o lamento osavamo emettere, per terrore degli echi sconfinati di quegli antri. Una calma abominevole ci circondava e mi stringeva il cuore più di qualunque altra cosa io avessi visto e immaginato fino ad allora.

E così viaggiando, persi nell’infinito inverso cuore del creato, giungemmo presso il varco che si era aperto ad ingoiare il mondo!


Continua…
Mauro Longo
Mauro Longo
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5 commenti

  1. Superbo. Sublime. Metafisico. Ancestrale. Onirico. Suggestivo. Moderno. Ignominioso e sacro al contempo… Non so che altro dire se non vivissimi complimenti per il tuo lavoro…
    Se poi un domani scrivessimo mai qualcosa insieme (magari un LoveRcraft, che ha anch’esso uno stile molto pomposo), ne andrei altamente fiero…

    • Ehhh… grazie Danilo! Troppo buono!! Jacopo Mortis è solo un piccolo divertissement. All’inizio doveva essere una specie di “Dylan Dog” dell’ 800, poi le sue avventure sono deviate verso imprese un po’ troppo epiche… Vediamo, vediamo… Intanto voglio finire questa impresa e poi provo qualche storia intermedia…

  2. E’ molto molto bello… un’operazione simile l’ho provata io con quel personaggio, mettendolo nella Provenza francese invece che a Provvidence, e facendogli esplorare un mondo carnale e terreno invece che spirituale e ultraterreno…
    Ovviamente il tuo personaggio necessita d’un linguaggio ancor più datato e aulico, per il quale non saranno mancate piccole o lunghe ricerche, forse… Di nuovo ti rinnovo i complimenti, e in bocca al lupo al Mortis… 🙂

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