Il Decamerone dei Morti – Anteprima

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COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO

DECAMERONE DEI MORTI

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COGNOMINATO

L’ALBA DEI TRAPASSATI REDIVIVI

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E DEDICATO AL PRINCIPE GALEOTTO

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NEL QUALE SI CONTENGONO DIECI NOVELLE IN DIECI DÌ

DETTE DA SETTE UOMINI E DA TRE DONNE

SUGLI ORRIDI FATTI DEI MORTI RITORNANTI DI FIRENZE

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Umana cosa è aver compassione degli Afflitti.

E come a ciascuna persona questo si addice, è massimamente richiesto a coloro che hanno fatto mestiere della loro estinzione; fra questi, se alcuno mai ne ebbe fatto davvero un grande scempio o gli fu caro il combattere notte e giorno o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli.

Per ciò ché, oltre modo essendo stato acceso, dalla mia prima giovinezza infino a questo tempo, d’altissimo e nobile ardore guerriero (forse più assai che alla mia bassa condizione non si richiedesse, quantunque da coloro che più nobili erano io fui lodato e di molto reputato), mi fu tale spirito foriero di grandissima belligeranza e crudeltà, che io porto fermissima opinione che solo per quello sia avvenuto che io non sia tuttora morto.

E come piacque a Colui il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incomprensibile agli uomini a tutte le cose mondane aver fine tranne che agli Afflitti mortalità terrena, il mio ardore mai si poté piegare a niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o periglio che seguir ne potesse, né si era potutolo rompere o piegare o in processo di tempo diminuirsi.

Ma quantunque non cessata sia la pena che avvolge il mondo intero come sudario, non per ciò è la memoria fuggita dall’umanità rimanente, intendendo per questo il senso di essere uomo proprio del mio animo e il genere umano che ancora porta su di sé le fatiche e i travagli della piaga che li circonda. Né passerà mai, sì come io credo, se non per morte.

E poiché la forza, per quel che io credo, tra l’altre virtù dei giorni nostri è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere solo di crudeltà e ferocia intriso ho deciso di presentare, per quel poco che per me si può, vicende e fatti edificanti sulla corretta applicazione della forza contro gli Afflitti. E faccio questo, se non per coloro che me aiutarono, ai quali per loro morte o per lor senno o per loro buona ventura non abbisogna, per quegli almeno ai qual può esser d’aiuto.

E chi negherà questo, che molto più alle vaghe donne che agli uomini si conviene ascoltare questi fatti? Esse dentro ai delicati petti, temendo e vergognando, tengono gli orribili sentimenti nascosi, di paura, disconoscenza, malinconia, amore per i padri, le madri, i fratelli e i mariti ormai Afflitti. E se per questi sopravviene nelle lor menti alcuna malinconia, mossa da focoso disio, in quelle conviene che non troppo a lungo si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: perché i Morti non ricambiano la loro gravezza di pensieri e solo bramano di poterle brancicare, mordere e in mille modi affliggerle del medesimo loro male.

Dunque, acciocché in parte per me s’ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno fui mancante di forza, mi fu più volte di sostegno, soccorso e rifugio, intendo di riportare dieci novelle, o favole o parabole o storie che dire le vogliamo, per come raccontate in dieci giorni da una onesta brigata di tre donne e di sette uomini nel pestilenziale nostro tempo della mortalità vivente e alcune canzonette da essi cantate al lor diletto.

In queste novelle, orridi e aspri casi di lotta e liberamento contro gli Afflitti e altri fortunati avvenimenti si vedranno, così né tempi avvenuti dalla Caduta di Firenze come in quelli precedenti; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimenti potranno pigliare insegnamento delle terribili cose mostrate e utile consiglio, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare nella guerra contro i morti: le quali cose senza passamento di malinconia non credo possano intervenire.

Il che se avviene, che voglia Iddio che così sia, a Fortuna ne rendano grazie, la quale liberandomi più volte dalle braccia della Morte m’ha concesso il potere di attendere a questa opera.

 

Aggiungo ancora, perché non mi sia duro il giudizio dei grandi, che io uomo di strada e di battaglia sono e fui, e di poca lettera, sicché sia perdonato lo scrivere mio da questo punto a seguirsi, ché per la maggiore comprensione di tutti io adotto il volgare vernacolo del popolo e non l’aulica parlata dei poeti.

Perché esse sian lette da maggiore numero di gente, non solamente in italico volgare e in prosa scritte per me sono, ma ancora in stile umilissimo e rimesso quanto più si possa e cercando convenientemente di rendere ad ogni racconto il modo vero e l’intonazione reale data da colei o colui che lo racconta, senza sostituir per quanto possa, il mio parlare al suo.

Altra grande opera sarebbe questa stata in più amabile e cortese occasione.

I turpi fatti del Flagello necessitano d’ora innanzi lingua più puerile e comprendenda. 

Mauro Longo
Mauro Longo
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4 commenti

  1. No, no… sarebbe stato un suicidio narrativo… Questo dell’introduzione è il pezzo più ostico, parafrasato parola per parola dall’originale. Poi comincia lo “stile umilissimo e rimesso” e la lingua “più puerile e comprendenda”. Insomma poi mantiene una patina anticata ma una struttura delle frasi decisamente più moderna.
    Diventa una specie di Armata Brancaleone con gli Zombi, ecco…

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