Un’umida stagione gialla era il mio racconto per il concorso Racconti Scelti della Pandemia Gialla. Il concorso è poi tristemente naufragato, come si può leggere QUI e QUI. In ogni caso il racconto non fu mai finito per tempo.
Ecco quello che sarebbe potuto essere…
Il sole era sorto da quasi un’ora e la sua luce appariva giallastra e febbrile nel cielo velato. Dal mare si sollevavano banchi di vapori che rendevano lo Stretto afoso e spettrale e si confondevano con le nubi più basse. Appoggiato al parapetto della terrazza, tre piani sopra il livello dell’acqua, Massimo scrutò la costa e l’orizzonte in cerca di un qualche segnale di vita normale.
Niente barche, niente traghetti, niente motoscafi in fuga verso le isole. Le navi della marina erano salpate dopo l’ultimo maremoto e da allora non si era più vista una divisa in giro, a parte quelle imbrattate di sangue e di bava gialla indossate dai lupinari. Erano settimane ormai che non si vedevano più le barche a vela o i pescherecci senza benzina dei sopravvissuti. La porta-container incagliata di traverso nel porto e il cacciatorpediniere arenato in mezzo alla città erano le uniche due imbarcazioni nel raggio di miglia, gusci di lamiera spezzati e scricchiolanti invasi da festoni di alghe mucose.
Un pandemonio di urla belluine esplose dalla litoranea. Massimo girò il binocolo in quella direzione e vide una torma di belve in foggia umana precipitarsi fuori dai palazzi sventrati e lanciarsi in una corsa folle verso nord, dietro chissà quale preda.
Brutta storia, amico mio, pensò. Spero non ti raggiungano, chiunque tu sia…
Si sporse oltre il parapetto e guardò giù, nei canali. Gli annegati giacevano riversi con la testa sotto l’acqua e il riflusso della marea li portava lentamente verso il largo, trascinandoli via da quelle che un tempo erano strade, da quella che un tempo era una città. Le macerie e i palazzi in rovina sorgevano dal fango tutto attorno: finestre senza vetri, brecce, crolli, strutture collassate in cumuli di calcinacci bagnati e tondini di ferro arrugginito.
I branchi si spostano a nord, rifletté Massimo. La luce è già buona e tra un’ora comincerà a fare fin troppo caldo. È tempo di andare.
Fece un giro completo della terrazza e scrutò giù da ogni lato del palazzo. Gli squali e le altre belve sollevavano increspature bianche sulla superficie, che diventavano vortici intorpiditi quando i corpi degli annegati venivano agguantati e smembrati. Ma non c’erano lupinari in giro, né in acqua né vicino all’approdo.
Massimo si infilò nella tuta da motociclista e fissò le protezioni alle gambe e al torace. Mise lo scaldacollo e il sottocasco e indossò le scarpe e i guanti. Era tutto materiale da professionisti, realizzato per le gare estive, eppure tessuti sintetici e punti d’areazione non sarebbero bastati ad evitare il caldo di quel mattino: sarebbe dovuto andare e tornare prima delle dieci o l’afa lo avrebbe fatto sciogliere di sudore, arrancare di fatica e affannare.
E le cose sarebbero andate male.
Si legò il fodero della spada alla schiena e ci attaccò sopra lo zaino. Carmilla gli corse al fianco, scodinzolando eccitata. Nonostante il mondo si fosse rovesciato e i cadaveri impestassero ogni angolo della città, il cane lupo non vedeva l’ora di uscire, salire in barca e andare a cacciare con lui casa per casa. Niente più guinzagli e museruole. Per lei la vita era tornata alla normalità: correre, fiutare, azzannare e combattere…